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Regionalizzazione: eccola di nuovo. Ultimo atto della distruzione della scuola pubblica

Il 2 febbraio è stato approvato dal consiglio dei ministri il ddl sull’ “autonomia differenziata” redatto dal leghista Calderoli. Ciò avvia l’iter di un provvedimento mirato in realtà alla gestione regionale del 90% della fiscalità ed alla regionalizzazione della scuola (e non solo), personale compreso. Stando alle stime consolidate sulla spesa corrente, ecco di quanto si ridurrebbe il budget annuale della maggioranza delle regioni: Marche (-105mln); Liguria (-347); Friuli Venezia Giulia (-410); Umbria (-1,213mld); Valle d’Aosta (-1,472); Campania (-2,086); Provincia Autonoma di Trento (-2,287); Abruzzo (-2,364); Puglia (-2,501); Sicilia (-3,576); Basilicata (-3,948); Molise (-3,996); Sardegna (-4,368); Calabria (-5,528). Stante l’attuale situazione di sfacelo generale degli istituti, per il 90% non in regola neanche con le norme su igiene e sicurezza (il cui rispetto grava proprio soprattutto sugli enti locali), cosa potrebbero più garantire le regioni più povere, prive di mense e laboratori e nelle quali non è mai partito il tempo pieno? Sono solo 6 le regioni che ci guadagnerebbero: Lombardia (+5,611mld di surplus); Lazio (+3,672); Emilia Romagna (+3,293); Veneto (+2,078); Piemonte (+1,162); Toscana (+805mln) e la Provincia Autonoma di Bolzano (+693mln). Peraltro, in tempi di pandemia, gli elementi di regionalizzazione già presenti nella sanità, hanno garantito esattamente il contrario dell’efficienza promessa con l’autonomia differenziata, a cominciare proprio dal ricco Nord, che non ha fatto altro che destinare almeno il 40% delle risorse alle cliniche private lasciando scoperto il settore pubblico, il cui personale è stato falcidiato quasi come al Sud come i presidi territoriali.

Il testo definisce i “principi generali per l’attribuzione alle regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” e delle “relative modalità procedurali di approvazione delle intese fra lo stato e una o più regioni”. La richiesta di “autonomia” relativa alle materie concorrenti elencate all’articolo 117 della costituzione (quasi l’universo mondo), gestibili dalle regioni anche in forma esclusiva, deve essere deliberata dalle regioni interessate e trasmessa al presidente del consiglio e al ministro per gli affari regionali e le autonomie. Quest’ultimo, acquisita la valutazione dei dicasteri competenti per materia e del ministro dell’economia e delle finanze entro i successivi 30 giorni, avvia il negoziato con la regione interessata. Lo schema d’intesa preliminare tra stato e regione, corredato di una relazione tecnica, è approvato dal consiglio dei ministri e trasmesso alla conferenza unificata per un parere da rendere entro 30 giorni. In linea di massima, trascorso tale termine viene comunque trasmesso alle camere per l’esame da parte dei competenti organi parlamentari, che si esprimono con atti di indirizzo entro 60 giorni. Trascorsi 30 giorni dalla comunicazione dell’approvazione da parte della regione, lo schema d’intesa definitivo, corredato di una relazione tecnica, è deliberato dal consiglio dei ministri insieme a un disegno di legge di approvazione da presentare alle camere. L’intesa è immediatamente sottoscritta dal presidente del consiglio dei ministri e dal governatore della giunta regionale. Ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della costituzione, per l’approvazione definitiva del disegno di legge, a cui l’intesa è allegata, è richiesta la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera. Il provvedimento stabilisce che l’attribuzione di nuove funzioni relative ai “diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (sic! – testuale) è consentita subordinatamente alla determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni da parte della (ennesima) Cabina di regia istituita dalla legge di bilancio 2023.

Le norme del 2001 (governo Amato di “centro-sinistra”) sulla riforma del Titolo V della costituzione che a suo tempo ha reso possibile questa vergogna, approvata con soli 6 voti di maggioranza, non prevedono la possibilità di grandi modifiche derivanti dal dibattito parlamentare.

L’attuale (assai compromesso) assetto costituzionale prevede che, qualora le regioni lo chiedano, resti allo Stato solo l’indicazione degli indirizzi generali sull’istruzione.

Ma in questo modo le Università del Sud rischierebbero di chiudere e le scuole (già piene di problemi) diventerebbero un cronicario didattico. L’alternanza scuola-lavoro ne uscirebbe dovunque rafforzata. Non seguiamo quanti s’affidano a schermaglie politiche e legali sulla definizione dei “Lep” (che al massimo stabilizzerebbero ad libitum la spesa odierna corrente con tutte le tradizionali e palesi discriminazioni) o ad altre barzellette “causidiche” che coprono un’acquiescenza di fondo.

Naturalmente il presidente del consiglio riceverà il mandato del governo per (ri)stabilire l’intesa anche con i governatori di Lombardia ed Emilia Romagna, le altre che in passato hanno già chiesto l’autonomia differenziata.

Il cosiddetto “federalismo scolastico” è un cavallo di battaglia della Lega già da quando Bossi parlava di “scuola nazionale padana”. La “destra nazionale & sociale” naturalmente lascia fare perché promuove gli egoismi ed il “particulare”. È sempre assolutamente corporativa ed antipopolare, come s’è visto subito, dall’eliminazione del reddito di cittadinanza al pieno ritorno delle accise senza nessun attacco agli extra-profitti delle imprese energetiche, dagli sconti sull’evasione fiscale al gravame imposto sui lavoratori dipendenti tassati più del doppio di una partita Iva, sino ai nuovi regali al disonesto business del calcio e al manganello sui giovani dei Rave-party (6 anni di galera), nonché alla stretta sulle rotte delle Ong che lascia spesso scoperto il Mediterraneo meridionale facendo impennare le morti in mare. Quel che resta dei faccendieri berlusconiani applaude.

Il Pd ha fatto a lungo il “pesce in barile”: basta pensare alla pre-intesa sulla regionalizzazione di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna (non a caso della partita). L’intesa firmata con Zaia, a suo tempo, sia da Gentiloni che dai pentalegati prevedeva un contratto differenziato (magari anche con notevole aumento d’orario e della flessibilità per le supplenze, com’è già nel Trentino Alto Adige, regione autonoma, grazie ad un accordo sottoscritto nel 2015 anche da “mamma” Cgil che ha svenduto il mansionario e lo stato giuridico dei docenti per 300 euro in più) e titolarità regionali, bloccando a Nord quella gran parte degli insegnanti che viene dal Sud. Il prossimo segretario del partito, Bonaccini, come ben sanno i suoi sodali “competitors” (che non ne parlano mai), ora avanza critiche di circostanza, ma ha da tempo promesso il ricco pacchetto alle imprese (cooperative comprese) della regione che dirige.

Il mondo dell’istruzione pare destinato a fare da apripista. Incardinando per la prima volta la regionalizzazione del personale (cosa mai successa prima in nessun altro settore): questo governo aprirà così la strada alle gabbie salariali anche per la sanità ed i servizi, chiudendo in un ghetto il Meridione.

Qualcuno a Nord, ammaliato dalle “sirene” del ministro “del merito” (!) Valditara, crede nel “miracolo” di stipendi più alti, ma per quanti passeranno dallo stato alle regioni è pronto lo stesso tiro mancino che subì in ogni parte del Paese quella parte di personale non docente statalizzata nel 2000 provenendo dagli Enti Locali. In questo caso si tratterebbe dello scomputo degli anni di servizio maturati nello stato, con l’annullamento dell’anzianità e la sparizione dei “gradoni”, non presenti nel Ccnl degli enti locali. Agli Ata ex Enti Locali, venne invece azzerata del tutto l’anzianità di servizio, con un danno fortissimo su stipendi e pensionamenti. A legulei e giustizialisti ricordiamo che questi 70mila lavoratori della scuola che, a parità di mansioni ed orario percepiscono oggi uno stipendio ridotto rispetto ai loro colleghi o sono andati in pensione dopo 42 anni di contributi con pensioni da 1000 euro, nonostante dieci sentenze favorevole della Suprema Corte Europea attendono ancora giustizia.

Stefano d’Errico

(Segretario Nazionale Unicobas Scuola & Università)